"Avevo figli piccoli e un marito. Ho tenuto duro per loro"

«In quei momenti, lo sbandamento è totale. Bisogna avere la forza di guardarsi dentro e tanto coraggio. Noi non siamo scappati, siamo rimasti e abbiamo affrontato la situazione fino in fondo, pagando un prezzo personale altissimo. Il tracollo della propria azienda è un’esperienza devastante, da cui non ti riprendi mai del tutto. Ma va accettato come una delle tante disgrazie che riserva la vita senza assimilare il fallimento dell’attività a quello personale. Se ho pensato di farla finita? In quelle circostanze lo pensi. Ma avevo figli piccoli, un marito, ho tenuto duro per loro».

C’è ancora molta rabbia e dolore nelle parole un’imprenditrice trevigiana che aveva una ditta tecnologicamente avanzata di macchinari per la pulizia di motori. La sua è una storia di rinascita, perché dopo il fallimento è riuscita a ripartire con l’attività, ma è anche una denuncia durissima contro un sistema ostile verso chi fa impresa, il quale, oltre a sviluppare idee, produrre, far crescere la propria attività, si trova a dover battagliare contro clienti che non pagano, banche che al primo campanello d’allarme chiedono il rientro dai fidi, una giustizia lunga e inefficace che non dà nessuna garanzia.

«Nel 2003 vincemmo una commessa molto consistente per la fornitura di sistemi di lavaggio per motori di aeromobili e carrelli da una importante industria aeronautica – racconta l’imprenditrice -. Avevamo ottenuto la commessa grazie all’innovazione del nostro prodotto. Eravamo felici. Era per la nostra azienda l’occasione per fare il salto di qualità, ingrandirsi, creare lavoro. Invece è stata la nostra fine».

Nella fase dei collaudi, la società, che all’epoca dava lavoro a una trentina di addetti e aveva un fatturato di qualche milione di euro, si trova improvvisamente a corto di liquidità. Ma senza i collaudi non può fatturare il saldo della commessa principale, un milione di euro. Per le banche diventa un’azienda a rischio. Cominciano a chiederle il rientro dei fidi. «Nel momento in cui ci siamo trovati senza liquidità la spirale verso il fallimento è stata rapidissima – continua la donna -. Chiedemmo a fornitori e dipendenti di lasciarci finire il cantiere, per recuperare il saldo: incassando quella cifra saremmo stati salvi». Invece non andò così. Nel 2007 l’azienda fu costretta a portare i libri in tribunale.

«Dopo questa vicenda abbiamo capito che, nel nostro Paese, una piccola-media impresa, pur avendo capacità e potenzialità, non ha nessuna tutela. Se a un’azienda arriva un’opportunità, tutto il sistema dovrebbe cooperare perché il beneficio è per tutti. Noi abbiamo avuto l’opportunità ma le banche prima ci hanno appoggiato e poi si sono tirate indietro. Quindi è finita la storia. Oggi continuiamo a fare il nostro lavoro perché è una questione di dignità e sopravvivenza. Quello in cui operiamo è un mercato di nicchia e abbiamo i nostri clienti. Ma siamo inchiodati. Potremmo fare di più ma chi ci dà finanziamenti per investire in macchinari? Dopo un fallimento sei guardato con sospetto da tutti. Lavori solo sei hai contanti».

«La vita non sempre ripaga i tuoi sforzi nel modo giusto – ragiona l’imprenditrice -, ma ho sempre cercato di vedere quello che ci è successo come un incidente di percorso, ripetendomi che avevo fatto il possibile. Cosa avrei dovuto fare? Non prendere su quella commessa? Ma un imprenditore è tale se rischia e se lavora. Non mi sono mai sentita fallita come persona, ho sempre cercato di mantenere un distacco tra quella che era la mia azienda e ciò che sono io. Non mi sento fallita, mi sento invece piena di rabbia e di voglia di combattere».

«Ai colleghi imprenditori che stanno vivendo momenti devastanti come quelli che ho vissuto dico: “Parlatene. Parlatene con le vostre compagne, parlatene con gli amici”. Non c’è nulla di cui vergognarsi. Il sistema vi penalizza? Si chiude l’azienda e si va a fare altro».

Invita a mollare? «Invito a mollare se uno non ce la fa più perché la vita è più importante. Ma invito anche a combattere contro un sistema che non aiuta chi fa impresa. Le banche italiane hanno ricevuto milioni di euro dalla BCE e alle imprese non è arrivato nulla. Non si può fare impresa senza credito, neanche se si è ben capitalizzati. E poi serve un fondo pubblico per soccorrere gli imprenditori che si trovano in momentanea difficoltà. Farli fallire significa rubare opportunità e lavoro a tutto il territorio».

Francesca Nicastro


 

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