La storia di Loris. "Il fallimento uno shock. Sono vivo grazie alla mia famiglia e alla fede"

«Il suicidio è una casa a cui molti lavorano: c’è chi dà il permesso, chi la costruisce, chi la demolisce, chi sta a guardarla e se ne frega». Ha buttato giù un intero piano di quella “casa di morte” il giornalaio che una mattina, dopo molto tempo che non lo vedeva, gli ha detto: “So quello che è successo, purtroppo la vita è così, basta che tu stia bene”.

Loris (nome di fantasia), 50 anni, è ancora vivo. Non è più titolare di una nota impresa metalmeccanica che fino al 2008 aveva commesse in tutta Italia, è un operaio a chiamata. Senza più auto, con l’abitazione messa all’asta. Ma con ancora una moglie e i figli che gli vogliono bene. All’uomo che vende giornali è tornato indietro a stringere la mano.

Loris è uno dei 451 imprenditori che hanno avuto il coraggio di digitare l’800334343, il numero verde anti-suicidi della Regione Veneto. Lo ha fatto un pomeriggio di settembre dopo aver trovato i lucchetti nuovi di zecca a sigillare il capannone della sua impresa. «A novembre avrei festeggiato i 30 anni di attività, invece ho portato i libri in tribunale – racconta -. Ma avevo capito che per me era finita già l’autunno prima, dopo la manovra d’estate del governo di allora. Ho resistito un anno per cercare di tenere in piedi il lavoro di una vita». L’impresa, una trentina di addetti, forniva macchinari, manutenzione e servizi a fornitori della Pubblica Amministrazione e a privati

In quell’anno di limbo è successo di tutto, anche cose di cui oggi l’ex titolare si pente. In pesante crisi finanziaria, i suoi consulenti lo avevano spinto ad accettare denaro facile da gente rivelatasi poco raccomandabile. Delinquenti in doppio petto che invece di salvare l’azienda l’avevano definitivamente spolpata. «Tre-quattrocento mila euro di macchinari spariti nel giro di qualche mese» ricorda Loris, che ha deciso di denunciare alle forze dell’ordine il giro di malaffare in cui era caduto dopo il colloquio con la psicologa del servizio regionale anti-crisi. «Quando ho visto i lucchetti mi sono sentito perso. Ho chiamato, sono stato aiutato, ho trovato il coraggio di sporgere denuncia».

«Al suicidio ho pensato sì, più di una volta – continua -. Quando viaggiavo in autostrada speravo che un camion mi “chiudesse”. Volevo sparire, liberarmi di quel fardello, ritrovare la pace». «Il fallimento è stato uno shock. Ma ho avuto tre fortune che mi hanno permesso di reggere psicologicamente – racconta -: non mi ero mai montato la testa, dentro ero rimasto l’umile operaio degli inizi, sapevo di avere intorno a me gente che mi voleva bene, la mia famiglia soprattutto, e la fede in Dio che è cresciuta notevolmente in questo ultimo anno».

Ci sono fatti, però, che l’ex imprenditore non dimentica. Cose che fanno male e segnano per sempre. «Lavori per una vita, ti fai in quattro, dai lavoro agli altri. Quando però gli affari cominciano ad andare male il mondo ti si rivolta contro come una bestia.

Le banche, dopo aver mangiato sulla tua attività, ritirano i fidi, i fornitori ti assillano di telefonate, i dipendenti, con cui ti sei sempre comportato bene, scrivono insulti fuori dalla fabbrica, i sindacalisti con cui per dieci anni avevi bevuto insieme il caffè ti montano contro gli operai con cui hai lavorato gomito a gomito per vent’anni.

Contro uno che ha lavorato una vita, che senso ha accanirsi così? Se mi rimprovero qualcosa? Sì, di aver voluto bene a troppa gente e di essermi fidato di chi mi consigliava».

E poi c’è una delle questioni centrali, che sta a monte e che pone degli interrogativi sull’adeguatezza di un modello aziendale che mette sulle spalle di uno, o di pochi, tutta la responsabilità della conduzione dell’azienda, che, lungi dall’essere un fatto privato, è un bene sociale da cui dipende il benessere di molte famiglie e il futuro di un territorio.

«Nel momento in cui l’impresa comincia a navigare in acque cattive, manca un sistema di intervento solidale, di affiancamento gestionale e di supporto finanziario, e l’imprenditore si trova solo. Non è tanto la mancanza di denaro che pesa, è la mancanza di supporto all’imprenditore – conclude -. Ti trovi completamente solo. E dalle istituzioni l’aiuto per salvare l’azienda arriva solo a parole ».

Francesca Nicastro


 

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